Firenze, 26 ottobre 2022: Alex Mucci e Eva Menta scattano dei selfie a seno quasi scoperto di fronte alla Venere di Botticelli.

Il reo confesso, il corpo del reato e il movente.
Cosa succede quando le tre pietre dello scandalo s’incarnano in un solo oggetto, anzi in due, nel caso specifico? E se l’oggetto, anzi i due oggetti, sono il fine stesso dello scandalo? Succede che lo scandalo si estingue: non c’é, così come non c’é il delitto.
Il caso é senz’altro interessante perché le due “influencers” (varrebbe la pena di approfondire il significato di questo inedito “titolo onorifico”) dentro la scenetta che si consuma all’interno della preclara “Sala della Venere” presso gli Uffizi di Firenze, sono “corpi del reato”.
Il “delitto”, la dissacrazione, lo sfregio, prendono forma esclusivamente per mezzo della loro presenza in scena. Ma le due procaci performers sono anche “il reo confesso” e il “movente”, poiché solo da loro parte e solo a loro beneficio si realizza l’atto scenico incriminato.
In questo incrocio intricato che confeziona la Messa della scena non c’é colpa. Difficile anche circostanziare il dolo, quando candidamente le due signorine compiono il gesto pedestre di privarsi della giacca.
A certificarlo é il Dottore dell’Arte, dal quale si attendeva con trepidazione un verdetto “ex cathedra”, che sollevasse la comunità degli interdetti, il popolo dei “vediamo cosa dice lui”.
Ed ecco quel che dice Vittorio Sgarbi, il critico d’arte che del critico ha solo l’arte, nel senso deteriore del termine “arte”:
“Due influencer seminude agli Uffizi? Non capisco dove sia lo scandalo.”
Ha ragione lui.
Per la parola “scandalo” l’etimo, con certa riprovazione morale, ci suggerisce l’idea di un “inciampo”, un “impedimento”, un incidente che solleciti e metta in atto comportamenti non degni d’esser portati ad esempio, contrari alla morale. Questi tempi e questi luoghi sono del tutto inadatti e mal si prestano ad una simile pubblica concione.
Eh sì, perché i tempi che corrono hanno dismesso la funzione salvifica dello scandalo, dal momento che il loro conformismo tecnologico e funzionale, che tutto abbranca e fagocita, nella furia del pasteggio ha dilaniato e ben digerito anche l’anticonformismo in ogni sua possibile declinazione. Lo ha incorporato.
Ne emerge un neo-conformismo onnisciente, onnicomprensivo, “a favore di camera”, che resta sempre sul proscenio, che deve sempre una strizzata d’occhio a chiunque sia collegato, quale che sia la sua estrazione, la sua formazione, il suo “background”, che tutti accoglie indistintamente e tutti ingloba, e che non condanna alcun parossismo, specie quando sia foriero di un incremento significativo dei collegamenti.
Siamo sempre “on air”, continuamente attori di una scena virtuale che aborrisce o al limite ignora solo l’osceno, cioè “quanto non é in scena”. Tutti, Sgarbi compreso. Anzi Sgarbi per primo.
Se il culto dell’audience ha per oggetto l’audience, non hanno motivo d’esistere ne la censura ne il parossismo, coefficienti di discernimento obsoleti, decaduti automaticamente quando entrano in conflitto con l’oggetto del culto. Dunque lo scandalo é decaduto, la pubblica morale a-morale resta inattaccabile.
E Sgarbi ha ragione. Il suo giudizio si agita dentro le maglie flessibili dell’opportunità, é un enzima del sistema dell’audience, un automatismo integrato che ha per bussola la conformità al corpo del neo-conformismo.
Dentro l’alveo di questo nuovo corso auto – fagocitante dov’é l’inciampo, dov’é il parossismo, dov’é l’impedimento? In ultima analisi, dov’é lo scandalo? Per quale motivo dovrebbe essere giudicato quantomeno inopportuno il comportamento disinibito e discinto delle due sacerdotesse del culto, se quello stesso gesto realizza l’oggetto del culto?
Vale la pena ricordare che qualche anno fa il Critico, dal suo scranno, non aveva esitato a invocare un veemente “habeas corpus” verso l’ultimo enigmatico e ammaliante baluardo della società dell’audience, il sacerdote del culto, l’”influencer”:
“L’influencer è un pirla sfaticato che lucra su dei pirla danarosi incapaci di scegliersi da soli un paio di scarpe da pirla.”
Così aveva sentenziato il Critico dell’”Arte del Critico d’arte.” Una perfetta esegesi della capacità auto – fagocitante del sistema dell’audience, secondo il principio dell’opportunità: ogni tanto é d’uopo, quando l’opportunità a favore di camera lo consiglia, tirare giù il velo dell’ipocrisia e “smascherare” le liturgie del culto di massa, perché anche quell’impalcatura, di tanto in tanto, deve godere delle luminescenze dei riflettori. Perché l’impalcatura della scena dev’essere “in scena”, perché solo la scena, come s’é detto, la tiene in piedi. Succede così che le carte sono rimescolate e il mazziere può continuare a gestire il gioco.
Il Critico oggi ha plaudito l’atto del pirla, lo ha avallato. Tuttavia questo suo “placet” non é ancora “episteme”, dev’essere puntellato a dovere con un pizzico di sensazionalismo, con un tocco da maestro dell’”arte in assenza del critico”.
“Hanno fatto benissimo, io sono con loro. Non vedo cosa ci sia di male. Anzi, devo dire che sono più belle loro della Venere di Botticelli”.
Il cerchio é chiuso. Dei tre corpi nudi in scena, quello fissato con la tempera sul lino diventa osceno, perché ha la colpa d’essere passivo nella liturgia dell’audience, é “fuori dalla scena”. L’improvvido Paride ha consegnato le mele. Il dado é tratto. Il Critico dell’arte ha espunto l’arte dal Critico.

Apollinea, neoplatonica, pagana, la donna del dipinto é sempre neonata. La sua epifania é fugace, e il miracolo é nella sua nudità. Ma la sua nudità é un fortuito accidente, uno spiraglio temporale che sta per essere oscurato, dentro il quale ci é consentito rubare una caduca ostentazione con gli occhi. E pure in questo tempo “Aion” che é l’atto dell’artista, intatto e incontaminato, lei accenna al gesto aggraziato di celare le sue forme. Porta la sua chioma rischiarata dalle auree lumeggiature sul grembo, e ripiega il braccio verso il seno scoperto. All’atto della contemplazione riserva un ultimo indugio, scopre un’innocente e disarmata complicità con chi la osserva, apre uno scrigno che dispiega il fitto mistero della seduzione e l’alchimia del suo indecifrabile vocabolario semiotico.
Anche in questo caso dobbiamo dar ragione al Critico. La “Venus pudica” é oscena, fuori da questa scena, fuori da questo tempo. Il suo “substine et abstine” discinto non é conforme all’ideologia maggioritaria, alla sua spudoratezza. Non conosce il glossario del bailamme rutilante delle sue allucinazioni mediatiche collettive, non é esposta. La “Venus pudica” non é di questo tempo, e questo non é il tempo della “Venus pudica”. È un ostracismo, diremmo noi, provvidenziale, che salva la Venere del Botticelli. Meno ci esporremo a lei, meno la deturperemo. Anzi, a parere di chi scrive, La Venere del Botticelli dovrebbe essere rimossa dalla sua sede, e in attesa di un nuovo anti – conformismo che sia finalmente in grado di rivoltare la sua nemesi, aspettare dentro uno scantinato tempi migliori. Non sia mai che venga anche lei alfine ingoiata dal corpo dell’audience.