Dies irae

Blog di opinione ed informazione


18 novembre 2022. Roger Waters pubblica una nuova versione dell’immortale capolavoro dei Pink Floyd “Comfortably Numb”.

Un rombo fragoroso seguito da un lampo che fende un cielo plumbeo, fosco, e quello schizzo di luce che irradia improvvisamente la terra desolata di un paesaggio metropolitano post-atomico. Verde turchese condensato di lugubre foschia a inondare la scena di marcescenza, mentre il punto d’osservazione svetta orizzontalmente fra i relitti dei grattacieli devastati. Non c’é alcuna traccia di vita. Un suono acuto che pare lo stridio di un rapace si ode in lontananza. 

Chi ama i Pink Floyd lo ha già ritrovato dentro di se, quel suono, in quei luoghi intimi della memoria dove conserva solo la loro arte, tutta la loro arte, ogni singola nota, ogni singolo suono: si tratta delle inquietanti “iene ridens” di “Is there anybody out there?”, quegli ineffabili ghigni che contrappuntano il coro d’ingresso al brano. Chi le conosce le sente riecheggiare come un presagio, un’angosciosa ricerca, al di là del muro, e il loro stridente latrare avverte che non c’é consolazione possibile, che resta solo da attendere l’ingresso di quell’arpeggio triste e mite di chitarra classica che giunga a risollevare dalla disperazione. Perché esiste una mestizia dolce che allevia le pene di una mestizia più amara, ed é quella del ricordo, quella che l’arpeggio essenziale di Gilmour intercetta.

Ma qui non siamo dentro “Is there anybody out there?”. Questi non sono gli ultimi sussulti dei “Roaring Seventies”. Qui e ora siamo dentro il video ufficiale di “Comfortably Numb” nella versione 2022 di Roger Waters, tratta dalle sue “lockdown sessions” registrate in piena pandemia, e rilasciate solo qualche settimana fa. Lo spirito del tempo é mutato.

Qui solo lampi e rombi di tuono, nessuna consolazione che possa rendere “comfortable” l’obnubilazione. Adesso un piatto jazz appena carezzato segna il tempo come la lancetta di un orologio da muro dentro il tedio silenzioso del pomeriggio; un giro di basso minimo e un letto hammond gracile e prezioso conducono verso una “waste land” metropolitana già ferita a morte. La camera continua a librarsi in quota fra le carcasse degli edifici e passa in rassegna cumuli di macerie e vetri di infissi infranti. Gracidii quasi indistinguibili di una radio che bisbiglia giungono all’orecchio senza provenienza, e poi ancora un’ultimo rombo di tuono, e un lampo. 

Finalmente la camera si abbassa su quel che resta di una strada dissestata e stravolta, sui suoi marciapiedi che paiono ancora brulicanti di vita. 

E quella voce che conosciamo bene, eccola finalmente entrare in scena elegante e sinuosa: 

“Hello! Is there anybody in there? 

Just nod if you can hear me, 

is there anyone home?”. 

Una tenue fiammella si riaccende. La camera sorvola la grande strada disseminata di detriti, priva di traffico. I marciapiede però sono ancora brulicanti di vita. Ma é vita inerte, lo si avverte subito,  mentre  impercettibilmente si avanza fra le sagome che s’assiepano lungo i lati della strada. Paiono muoversi, ma é un’illusione. Il movimento é quello del volo silenzioso della camera che li osserva. Quei corpi sono solo simulacri vuoti. Gli uomini e le donne sul marciapiede sono ombre che guardano in basso, perduti dentro i piccoli amuleti che stringono fra le mani, quegli schermi piatti dalla luce diafana dentro i quali hanno versato e smarrito se stessi. Sono reminiscenze di vita trascorsa, forme appese prive d’ogni contenuto.

Siamo giunti al momento della grande apertura al ricordo del ritornello, abbiamo ancora in mente la musica che si spalanca come la porta di un casale di campagna alla luce del mattino, attendiamo la voce luminosa e schietta di Gilmour che venga ad annunciarci: “There is no pain, you are receding”, aprendo i polmoni al respiro consolatorio del ricordo. 

Ma non qui, non ora, non più. Di quel ritornello é rimasto un coretto appena sussurrato, dimesso, privo di slancio, come una tenue litania che ha perduto la forza della fede. Persino il passato rilucente di vividi ricordi s’é ritratto da questo presente informe e disastrato.

È uno dei più grandi capolavori del rock, unanimemente riconosciuto come pietra miliare della musica  leggera contemporanea. Il Rolling Stone magazine l’ha inserito nella “Lista dei 500 migliori brani musicali” di tutti i tempi. Il celebre commediografo Tom Stoppard (quello di “Shakespeare in love”) ha dichiarato di aver scritto gran parte della trilogia “The coast of Utopia” ascoltando ripetutamente questo brano.

Il regista Martin Scorsese lo ha inserito nella colonna sonora del film premio Oscar “The Departed – Il bene e il male”, e il brano compare in ogni singola classifica redatta dalle più autorevoli riviste del settore fra i primi cinque migliori assoli di chitarra elettrica della storia del rock. 

É “Comfortably Numb”, la hit immortale dei Pink Floyd, che in questi giorni sta rimbalzando nei social ancora una volta, riedita in veste completamente nuova da Roger Waters, la canzone che nacque nel “77 da un mal di pancia del bassista. 

Proprio così. Durante il tour di “Animals”, nel giugno del “77, a Philadelphia, il bassista nonché fondatore del gruppo, Roger Waters, si torce dai dolori dentro la sua roulotte. Pare sia affetto da epatite. Manca poco all’inizio del concerto, e il pubblico dello Spectrum rumoreggia oramai da qualche ora. Ogni cosa é disposta. Troppo tardi per rimandare l’evento. Così il manager della band chiede al dottore di iniettare al bassista un potente anestetico, che lo rimette in piedi in pochi minuti. Si fa per dire, perché Waters viene letteralmente trascinato sul palco, in stato quasi catatonico. In un’intervista del 1980, l’artista dichiarerà che quelle furono “le due ore più lunghe della sua vita”. Mentre il pubblico sembra non avvedersi affatto della menomazione del bassista, e continua a inneggiare i musicisti sul palco, infatti, lui é in preda ad allucinazioni febbricitanti che lo dislocano dalla paradossale situazione presente, facendo riaffiorare in lui ricordi d’infanzia angosciosi, popolati da psichedelie deformi e inquietanti. 

Ecco tutto il succo di “Comfortably Numb”. In realtà non solo il pezzo, ma l’intero concept album “The wall”, del “79 trae spunto da questo banale incidente. E se il brano é la fedele trasposizione del dialogo fra un dottore e una rock star prima di un’ apparizione pubblica, l’album diventa “il musical interiore” che proietta sulla scena allucinazioni alienanti popolate da mostruosità ed espressionismi d’ogni sorta che l’individuo, colto nel suo stato febbrile (con l’ausilio di droghe capaci di esaltarne la psichedelia) é costretto ad affrontare; ma soprattutto esprime l’incapacità di comunicare tali esperienze, di farle comprendere al pubblico che ascolta, al mondo. Il muro é edificato come una separazione fra il mondo interiore e la messa in scena sociale. E così la metafora diventa scena vera e propria, e nel tour più leggendario, “The Wall”, quello del 1980, mattone su mattone, quel muro prenderà corpo sul palco diventando barriera fisica, separazione concreta che nasconde la band al suo pubblico. 

“Comfortably numb” sintetizza questa idiosincrasia fra l’essere e l’ente, scomodando Heidegger. Ecco che il mal di stomaco é diventato un espediente pirandelliano, l’ incidente trascurabile che spalanca un abisso vorace all’ introspezione, dove la musica diventa l’ ambiente eletto della perdizione. Così fanno gli artisti. Trasformano qualcosa di periferico e trascurabile in un inno centrale e universale. La musica poi é il veicolo privilegiato dell’arte psicologica, é la via interiore per eccellenza.

Perché é il sound “Pink Floyd” ad incrociare il delirio introspettivo di Roger Waters. Se infatti é vero che il bassista scrive le parole, va ricordato che la musica del brano é tutta di Gilmour. 

Chiuso il tour estenuante di “Animals”, infatti, la band, come spesso succede, inizia a pensare di prendersi una pausa. David Gilmour, il timido chitarrista belloccio dagli occhi azzurri che era stato chiamato a rimediare agli errori di Syd Barrett durante le esibizioni dal vivo, s’é fatto largo dentro la pasta di quel suono tanto onirico, ne é mano a mano diventato l’artefice principale, e dietro ai suoi assoli materici fatti di gridi lancinanti e di gran quantità di suono s’é strutturato l’ambiente estensivo delle tastiere di Richard Wright. La chimica é decollata. I Pink Floyd “post beat” sono partiti da “Atom Earth mother”, sono passati per “Echoes” e approdati già nel “73 a “Dark Side of the moon”, hanno girato il mondo una ventina di volte e messo agli atti un concerto a Pompei che sarebbe diventato archetipico quasi come quello di Woodstock, e c’é chi é pronto a scommettere che la loro fase calante sia già iniziata. Il sound floydiano é un fiume in piena, nel ’77, ma i Pink Floyd sono esausti, non hanno mai tirato il fiato, dal “73 non fanno che girare il mondo fra album e tour, e a luglio, sempre dentro questo menage febbrile, accade per giunta l’incidente di Montreal: durante un concerto Waters, esasperato dalle urla esacerbate di alcuni fans in prima fila, arriva a sputare sul pubblico. É giunto il momento di tirare il freno e dedicarsi ai propri progetti personali. I quattro decidono di prendersi una pausa di riflessione. 

Gilmour pensa subito a un album da solista e le prime note che butta giù sono proprio quelle del ritornello di “Comfortably numb”. Quelle aperture alveolari piene di luce in re maggiore, quelle di “There is no pain, you are receding”, sono sue. Le melodie ci sono, mancano i testi. Capita spesso a Gilmour di non aver parole da far danzare sui copiosi “bendings” della sua Fender Stratocaster. E così succede che le vacanze finiscono, e il brano “in nuce”, l’idea melodica, la linea armonica, Gilmour preferisce impacchettarle in una demo che porta alle prime sessioni di registrazione di “The wall”, nel “78, sulle Alpi marittime francesi. 

Waters da par suo si presenta presso gli studi con un romanzo surrealista autobiografico che prende corpo in un fiume di testi, un flusso di coscienza consigliatogli dal suo strizza-cervelli per risolvere il suo conflitto interiore, l’idiosincrasia fra essere e esserci, come si diceva. Sono talmente copiose le sue farneticazioni che si potrebbero ricavarne non uno, ma tre LP. 

Si opta per una via di mezzo che scontenta tre dei quattro membri della band: un album a due lati, si farà come propone Waters, che é il vero fautore dell’opera. Alla fine delle registrazioni tanto sarà il materiale  disponibile che dalla costola di “The Wall” il bassista nell’”83 potrà dare alla luce “The final cut”, l’ultimo suo lavoro con la band, prima della burrascosa separazione.

Il romanzo autobiografico di Waters ha per protagonista il suo alter ego immaginario, Pink, il nome fantomatico frutto di un malinteso che insegue i quattro musicisti sin dai loro primordi, da quando i primi manager delle case discografiche li braccavano senza ritegno, con la bava alla bocca, fiutando la possibilità del facile successo commerciale. Era il tempo in cui l’”underground” londinese come una fucina incandescente sfornava pezzi di storia del rock senza posta. I Pink Floyd sono il gruppo di grido alla fine dei Sessanta, i più invasati, i più drogati, i guru della sperimentazione pura. Promettono bene, i Pink Floyd. La scenetta é già stata descritta dentro “Have a Cigar”, furoreggiante pezzo rock underground del “75, contenuto nell’album “Wish you were here”: un rampante e gasatissimo manager invita Waters e Gilmour – presumibilmente dopo una esibizione dal vivo della band – a sedersi nel suo studio, a mettersi a proprio agio, ad accendersi un sigaro, appunto. Promette loro un avvenire sfolgorante, costellato di successi, e poi li gela con la domanda: “Oh, by the way, which one’s Pink?”, “Oh, ad ogni modo, chi di voi due é Pink?”, dimostrando di aver capito ben poco della band. Il fatto pare sia realmente accaduto e il malinteso sul nome del gruppo diventa negli anni un calembour significante. Quel nome destinato a restare scolpito nella storia della musica, Pink Floyd, é in realtà un omaggio di Syd Barrett ai due bluesman neri americani Pinkney “Pink” Anderson e Floyd Council. Ma la band sa ben cavalcare i malintesi, e renderli preziosi nell’economia delle parole, mutandoli presto in cavalli di battaglia. Ed ecco che Waters rovescia il malinteso “Pink”, costruendovi sopra il personaggio centrale del suo maestoso musical rock.  

Su consiglio del suo psicanalista il bassista trasforma le sue fisime in una storia autobiografica: al centro una rock star dal passato travagliato, Pink, appunto: padre morto in guerra, madre oppressiva e onnipresente, matrimonio naufragato, dipendenza da sostanze psicotrope di varia patta, e così via. Ha le idee molto chiare sul da farsi, Waters, quando si presenta presso gli studi di registrazione. Lui si, gli altri tre non proprio. 

Dunque, quando s’imbatte nella demo di Gilmour, dopo qualche esitazione e a seguito delle preghiere di Bob Ezrin, il produttore dell’album, finalmente decide di incorporare la bozza del chitarrista nel progetto, e sa già cosa farne. In effetti la demo di Gilmour non é che un giro armonico modesto di quattro accordi, il più drammatico e cupo dei quali, proprio quello iniziale, in tonalità minore. Poi però il giro approda al ritornello con una fantastica apertura in re maggiore che rischiara tutto il feeling del pezzo e promette una melodia colma di nostalgica speranza, di rarefazione. Waters vi ha già indovinato dentro la sua drammaturgia. Ha compreso intimamente le due anime del brano, una sprofondata nella tenebra, l’altra aperta alla luce. Una scura che tende verso il basso, l’altra chiara che si eleva. E le due trame s’intrecciano e s’alternano mirabilmente, comunicando fra loro nel passaggio da un re maggiore a un si minore. Tanto basta. Il bassista decide d’infilarci dentro un episodio del travagliato musical interiore del suo Pink. É proprio l’episodio centrale, quello che ha offerto la scaturigine dell’intera opera, il concetto del “concept”. 

E allora saranno due le voci del brano, e presidieranno ciascuna la propria area di competenza: Waters stesso interpreterà il dottore che si insinua nei recessi dell’intimità del suo paziente, con la sua voce fittiziamente rassicurante, Gilmour invece sarà Pink, che risponde al dottore ripescando dentro la sua memoria, in uno stato di semi-incoscienza. 

Prendono forma le due strofe, come due stanze di una giostra…

Hello (Heilà)

Is there anybody in there? (C’é qualcuno lí dentro?)

Just nod if you can hear me (Fammi un cenno se mi senti)

Is there anyone home? (C’é qualcuno in casa?)

Come on, now (Coraggio)

I hear you’re feeling down (so che non ti senti bene)

Well I can ease your pain (io posso lenire il tuo dolore)

Get you on your feet again (rimetterti in piedi di nuovo)

Relax, I’ll need some information first (rilassati, mi servono alcune informazioni)

Just the basic facts (solo i fatti essenziali)

Can you show me where it hurts? (Puoi mostrarmi dove fa male?)

OK. Just a little pinprick. (Ok, solo una piccola iniezione)

There’ll be no more aaaaaaaaah! (Non ci sarà più alcun “aaaaaaaaah!”)

But you may feel a little sick. (Ma potresti sentirti un po’ debole)

Can you stand up? (Puoi alzarti in piedi?)

I do believe it’s working, good. (Penso che stia funzionando. Bene!)

That’ll keep you going through the show (Questo ti consentirà di affrontare lo show)

Come on it’s time to go. (Coraggio, é ora di andare)

La voce biforcuta di Waters sembra fatta apposta per recitare questa parte. Porta con se una malizia  affilata mascherata da un approccio sapientemente accattivante. È vestita di edulcorazione, s’insinua nella coscienza, arriva in fondo, indaga, scruta, interroga. Soprattutto, costruisce una pressione sul mondo interiore del protagonista. Lo invita a vincersi, a tornare nel mondo per farsi immagine, spettacolo, simbolo, consumo.

Ed ecco che irrompono i due ritornelli. La voce interiore risponde:

There is no pain you are receding (Non sento alcun dolore, e tu ti stai allontanando)

A distant ship smoke on the horizon (Il fumo distante di una nave, all’orizzonte )

You are only coming through in waves (Ti percepisco in onde)

Your lips move but I can’t hear what you’re saying (Le tue labbra si muovono, ma non capisco cosa dici)

When I was a child I had a fever (Da bambino ho avuto una febbre)

My hands felt just like two balloons (Sentivo le mani pesanti come due palloni)

Now I’ve got that feeling once again (Adesso mi pare di avvertire quella stessa sensazione)

I can’t explain you would not understand (Non posso spiegarti, e comunque non capiresti)

This is not how I am (Questo che vedi ora non sono io)

I have become comfortably numb (Sono diventato piacevolmente insensibile)

When I was a child (Da bambino)

I caught a fleeting glimpse (Ho dato un’occhiata)

Out of the corner of my eye (Con la coda dell’occhio)

I turned to look but it was gone (Ma quando mi sono voltato, quel che avevo visto s’era già dissolto)

I cannot put my finger on it now (Non riesco a venirne a capo ora)

The child is grown (Quel bambino é cresciuto)

The dream is gone (Il sogno é svanito)

I have become comfortably numb (Sono diventato piacevolmente insensibile)

Lo stato febbricitante é la soglia che consente di sollevare il velo del mondo, é il primo momento di lucidità dello spirito. L’obnubilazione é una chiusura verso il bailamme accecante della società. La luce di fuori é più buia delle fitte oscurità interiori, non offre che spietatezza e aberrazione. Resta il rifugio consolatorio del ricordo, l’unica via di fuga possibile dalle oscenità del mondo, dalle sue vessazioni.

Ci siamo dunque. Ci sono due strofe e due ritornelli, manca ancora l’ingrediente fondante della pasta floydiana, la chitarra elettrica di Gilmour. 

Si decide per due distinti assoli, uno per ciascuna delle due anime del pezzo. Il primo sarà arioso, luminoso, aperto, l’altro sarà cupo, straziato, disperato, e chiuderà il brano. 

Gilmour si mette sotto con la sua arma principale: il metodo. Registra cinque assoli sulla base, e poi si arma di penna e spartito. Scrive tutto. Traccia due segni sulle parti che ritiene “remarkable!”, uno su quelle che definisce “ok…”, una croce sui passaggi “not at all!”. Poi cuce insieme le parti che ha contrassegnato con le doppie linee, costruendo le transizioni fra i picks e mettendo su un pezzo unitario perfettamente integrato. È il metodo Gilmour: 5% genio creativo, 95% faticoso lavoro di rifinitura. Funziona sempre. In questo caso mette al mondo uno fra i tre quattro assoli migliori della storia. Davvero difficile commentarlo. L’assolo che chiude il brano é una spirale che punta verso il basso, un’ involuzione senza possibilità di ritorno. La chitarra di Gilmour grida una disperazione irrimediabile, annuncia un’agonia dell’io che é ineluttabile, e le sue evoluzioni si fanno sempre più serrate e asfittiche. Ma al contempo il sound é di una bellezza calamitante. Non si può fare a meno di sprofondare. l’”Urlo” di Munch. La dissolvenza finale sfuma l’assolo mentre é ancora furente di grida, e il silenzio che segue é come l’orizzonte degli eventi di un buco nero. Non ci é dato di vedere il fondo del precipizio.  É “il tunnel” di Dürrenmatt: c’é un treno che entra in un tunnel nero senza fine, e precipita verso il centro della terra. Non c’é epilogo, c’é solo un perpetuo precipitare che non ha rimedio. 

Il pezzo é concluso, si sembra finalmente giunti a dama. La fine di una vicenda travagliata emerge dal fondo del tunnel, la fusione di due mondi, quello visionario e psicotico di Waters e quello etereo e rarefatto di Gilmour, in una terza essenza in grado di riscattarsi e trovare una propria strada. Sembra essere cosa fatta. In realtà siamo ancora lontani dalla soluzione. L’incontro fra parole e musica si traduce nello scontro fra due personalità opposte, in un muro contro muro che non fa che peggiorare giorno dopo giorno. 

“Per Comfortably numb abbiamo litigato per anni come matti, come mai prima e dopo é successo”, dichiarerà Gilmour molti anni più tardi in un’intervista. E non é pacifico neanche quale fosse la ragione di tanto accanito livore fra i due “golden boys” della band, in effetti. Alcune monografie riportano che il chitarrista avesse spinto per una versione più grunge, più dura e distorta del pezzo, e che invece Waters insistesse per un suono limpido, meno cupo, che sarà poi la linea estetica prevalente di “The final cut”… Stando a più recenti dichiarazioni rilasciate dal bassista, invece, pare che l’origine della discordia fosse da imputare alla base ritmica del pezzo, che non soddisfaceva per nulla Gilmour, il quale chiese a Nick Mason (il batterista della band) di registrarne una del tutto nuova, che però a sua volta mandò su tutte le furie Waters… 

Insomma un’empasse senza via d’uscita, avanti così, giorno dopo giorno, fino a che il produttore Bob Ezrin, esasperato dai continui litigi dei due artisti, decide di togliergli il giocattolo dalle mani. Prende le tracce di “The Wall” e le manda agli studi di New York per gli arrangiamenti orchestrali, con la convinzione che il tocco finale di un terzo paio di mani super partes metterà presto fine alle schermaglie. 

E così sarà. Perché il terzo paio di mani appartiene a Micheal Kamen, e questo nome ai più dirà poco o nulla, eppure é il nome di uno dei maggiori compositori di musica per il cinema contemporanei, nonché arrangiatore per firme leggendarie del rock quali Queen, Metallica, David Bowie, Eric Clapton, Sting, Coldplay, e talmente tanti altri artisti che occorrerebbe una pagina solo per menzionarli tutti. 

Ebbene, la mano di Kamen impreziosisce il pezzo con un’orchestrazione drammatica e discreta, intima ed epica allo stesso tempo, e i suoi arabeschi s’incastrano dentro la trama musicale del pezzo come castoni di brillanti in un cerchio di platino. 

Il risultato é tanto oggettivamente indiscutibile che pone fine ai diverbi fra i due genitori del pezzo.“Comfortably numb” può esser data alle stampe. 

Da questo momento in poi non apparterrà più ai Pink Floyd, ne sarà più solo “Comfortably Numb”. Sarà un punto preciso della musica che continuerà a spostarsi insieme con il tempo. A chi s’auto ipnotizza ancora oggi nell’ascolto non resta che domandarsi cosa continui a funzionare dentro questo incantesimo. 

Qual’é l’alchimia di questa ricetta dell’anima che a ogni somministrazione riesce a fare effetto? Sarà forse il perfetto equilibrio di quella sua struttura strofa – ritornello – assolo, compiutamente esa – partita, che ricava una rima alternata di stati d’animo, del tipo A-B-C / A-B-C? Sarà lo spazio immenso che apre il ritornello, o forse la disperazione asfittica di quel leggendario assolo?

Per quanto mi riguarda “Comfortably Numb” circoscrive un gioco di prestigio allucinatorio continuamente proteso in oscillazioni. É il momento del bilico ricompreso fra i movimenti vettoriali dell’esistenza. Proprio come un pendolo, il brano é sospeso a un filo, e traccia solchi sul piano, oscillando.

C’é l’oscillazione fondamentale che é quella spaziale fra il dentro e il fuori, l’essere e l’esserci. La vita interiore e quella di relazione. C’é poi il tratto lungo che demarca l’avanti dall’indietro temporale, ovvero il presente dal passato, dove il presente é la necessità d’incarnare una parte altra da se, (la rockstar che é chiamata ad apparire sul palco) il che presuppone la rinuncia alla propria unicità, mentre il passato é una possibilità di redenzione concessa all’individuo nella prassi salvifica della rimembranza, che fa circolare aria nei polmoni e può salvare dall’asfissia del “dover essere”. Infine c’é un’ulteriore sospensione, quella dello spirito, intercettata fra l’alto che rappresenta l’ascesi dell’unicità e dell’individualismo e il basso dell’abisso del conformismo e dell’assuefazione alla mediocrità e all’insipienza. 

Dentro e fuori, avanti e indietro, in alto e in basso.

Dentro queste alterazioni esistenziali si sposta il pendolo in ogni direzione, come sopra un piano tracciando a terra gli antipodi dell’io: vita e morte, salvezza e dannazione, tripudio e disperazione, ragione e dissennatezza, gioia e dolore, memoria e oblio. 

Chiunque sprofondi dentro le aperture e chiusure alveolari di “comfortably numb” ha l’agio di poter piazzare le proprie pedine come meglio crede sulla scacchiera, di potersi visitare, di potersi assolvere o condannare. Il suo viaggio sarà individuale, protestante, personale.

Non é forse vero che i classici ci misurano, e non siamo noi a misurare i classici?

E questo mi riporta inevitabilmente dove avevo iniziato. 

Questa versione del pezzo appena rilasciata da Waters, che al contrario dell’originale esprime la più ostinata immobilità, é perfettamente a-patica, compiutamente a-sensoriale. In questa nuova forma é praticamente dissolta la fisionomia dei personaggi. 

Quarantatre anni dopo non é più ravvisabile l’alternanza della voce da fuori, quella del dottore, e la voce di dentro, quella del ricordo di Pink. Si tiene in piedi a stento una piatta, monotona litania, una sorta di sommessa predica corale. Dunque non c’é più direzione ne provenienza alcuna, non c’é più scaturigine, ne oscillazione, ne destinazione. La voce principale, quella di Waters, si confonde nel ritornello in un insieme indistinto di voci sommesse, sussurrate, tutte uguali. Non si rivolge più a ciascuno di noi, ma a noi tutti. 

Non c’é più avanti, e non c’é indietro, non c’é rilievo. Dov’é andato a finire il tempo? Il momento del ricordo coincide con la narrazione di un continuo presente ininterrotto e asfittico. 

Il pendolo é caduto e l’equilibrio irrimediabilmente spezzato. Non si precipita più, perché non c’é più un abisso fondo e scuro da sondare. 

É “Comfortably numb” a fotografare la vacuità del nostro tempo, a misurare il grado avanzato della decomposizione che il suo nichilismo ha favorito. Il classico s’é riaffacciato sul mondo e ci ha scoperti rintanati dentro le nostre abitazioni mentre eravamo inseguiti da una pandemia, esterrefatti sull’orlo di un conflitto nucleare mondiale, atterriti da una catastrofe ambientale incombente. E s’é calato dentro lo spirito del tempo. 

É per questo motivo che non possiamo tentare di esprimere un giudizio definitivo su questa riedizione del classico, senza che questo giudizio travolga anche il nostro mondo e noi stessi al suo interno, senza finire per guardarci prima di tutto dentro.

Non é questo, in fondo, che é chiamata a fare un’opera d’arte?