Dies irae

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11 gennaio 2023. Piano scuola 4.0. La “Crusca” si scaglia contro gli anglicismi contenuti nel documento di programmazione del Governo e chiede una revisione dell’atto.

“Come parlaaa?!! Come parlaaa?!! Le parole sono importantiii!!”. 

Cosí gridava come un ossesso, in preda ad un raptus omicida Nanni Moretti in una scena del film “Palombella rossa”, alla giornalista che imprudentemente aveva osato proferire l’espressione “ambiente molto cheap”, dopo averla peraltro schiaffeggiata senza ritegno. Una scenetta spassosa del 1989, divenuta in seguito antonomastica di un certo tipo di intellettuale radical chic che aborrisce il ricorso ai forestierismi dell’italiano parlato almeno quanto deplora le strigliate borghesi verso le imbelli domestiche filippine. 

Ecco, un editorialista dei giorni nostri al mio posto non avrebbe senz’altro esitato a definirla una scena “cult”, a proposito di mal digeriti codici linguistici pop presi in prestito da Oltremanica.

Allora eravamo all’albeggiare di una contaminazione che certo non aveva ancora assunto le dimensioni preponderanti di oggi. La New economy iniziava a rovesciare dentro l’italiano gergale espressioni tipiche del rampantismo più sperticato quali net marketing, self managing, trending topic, sharing economy, machine learning, stakeholding, break even, e altri balzani archibugi di un glossario simil tecnico tanto pronto per l’uso che bastava solo masticarlo un poco e sputacchiarlo dentro il contesto giusto per arrogarsi un piglio professionale e competente. Eppure gli intellettuali alzavano ancora barricate in difesa dell’italiano autentico e nobile, anzi addirittura, assumere un atteggiamento ostile nei confronti di queste degenerazioni del linguaggio significava in quegli anni rappresentare quel senso elitario di distinzione dal volgo imbarbarito che tanto piaceva a certa parte d’”intelligentia“ reazionaria dall’approccio spiccatamente ideologico.

Chissà cos’avrebbe gridato Nanni Moretti se avesse letto il “Piano scuola 4.0”, il testo programmatico emesso qualche giorno fa dal Ministero dell’”Istruzione e merito” (ahimè, così si chiama ora), che contiene le linee guida del PNRR sul versante “scuola”, e detta le istruzioni sul “potenziamento dei servizi d’istruzione dagli asili nido alle università”. 

Appena pubblicato nella sua versione grafica, il compendio del Ministero non ha fatto altro che tirarsi dietro critiche e stroncature formali e sostanziali. Fra le critiche formali figura la terribile “reprimenda” scagliata dall’Accademia della Crusca, la quale per tramite del “Gruppo Incipit” ha sentenziato che nel testo “c’é un’eccessiva abbondanza di anglicismi”, e ha caldeggiato una sua immediata revisione che contenesse la traduzione dei termini in un Italiano comprensibile oppure al limite una riedizione provvista di glossario autentico per l’interpretazione. Fra le critiche sostanziali invece risalta il commento di Susanna Tamaro. La scrittrice, oltre a deprecare l’uso dei forestierismi, ha senza appello definito il “Piano scuola” un “pomposo fraseggio atto a mascherare la fumosità degli intenti”, esprimendo di fatto anche un giudizio sul contenuto dell’”opera”.

In effetti il testo é un profluvio impudico di termini e locuzioni anglofone del tutto inopinate e perfettamente rinunciabili: “Background, framework, roadmap, Next generation classrooms, Next Generation Labs, milestone, target, Do No Significant Harm, check list, driver, mentoring, Digital board, peer learning, problem solving, multiliteracies, debate, gamification, blockchain, Task force Scuole, outcome”…

… Lo ammetto, “task force scuole” esplora oltranze del kitsch ch’erano rimaste ancora incontaminate, al punto che persino ad un tollerante col pelo sullo stomaco come il sottoscritto la sola reiterazione mentale della locuzione provoca l’improvviso manifestarsi di psoriasi diffuse, eritemi ed altre anafilassi di varia patta…

L’ostilità verso il forestierismo, d’altronde, più in generale la diffidenza verso le interferenze linguistiche, hanno salde e antiche radici, più che risorgimentali, e s’infondono dell’odore del “Caffé” milanese dei Fratelli Verri e di Cesare Beccaria, ancora incartato nel purismo linguistico tardo settecentesco, che pure era informato da criteri moderni, del tutto anti – accademici e anti – letterari. A loro volta i puristi milanesi avevano valentissimi antecessori cinquecenteschi cui ispirarsi, ex pluribus Pietro Bembo, assertivo sostenitore del primato del volgare fiorentino trecentesco. Basti pensare poi all’Accademia della Crusca già menzionata, che delle parole “il più bel fior ne coglie”, nel senso che quelli della “Brigata dei Crusconi”, come scherzosamente amavano appellarsi gli intellettuali fiorentini che la costituirono, si attribuivano il compito di passare al setaccio i grani della lingua come si fa con la farina, per ricavarne la parte più nobile e prelibata, cioè appunto il “fiore”, ed epurarne la crusca, cioè le forme più proletarie e meno auliche. Siamo alla fine del Cinquecento… Eppure già era ben saldo il principio della difesa della lingua letteraria.

A questo proposito é bene fare un ulteriore passo indietro per ricordare che il faticoso percorso che affranca il nostro volgare dalla lingua madre latina é ben più tortuoso di quanto si possa supporre; perché fra le decine e decine di degenerazioni regionali del latino che agli albori del Tredicesimo secolo erano già affiorate in Italia, solo il dialetto fiorentino subì una nobilitazione tanto tonitruante, attraverso l’opera di quella ben nota triade di vati che di fatto informa la lingua italiana, da cristallizzarne immediatamente il lessico in forme liriche praticamente insuperate. 

È questo davvero l’unico caso dentro la famiglia delle lingue neolatine in cui un dialetto assurga immediatamente, in modo quasi traumatico, a lingua squisitamente letteraria. Il volgare fiorentino che esce dal Trecento e affronta il periodo dell’emergente Umanesimo é già la lingua dei classici. E i classici sono appannaggio dei pochissimi eletti che hanno accesso all’istruzione. I classici sono degli aristocratici. 

Per dirla con il mio prediletto, Prezzolini: 

“La letteratura della lingua nuova, nata, quasi tutta, da una classe di gente colta, istruita nelle lingue classiche, nobili o clero, o dipendenti da prìncipi e da vescovi, non nasce quasi mai dalle avventure della vita, dal lavoro dei campi e dalla pratica dei mari. Nasce piuttosto dal silenzio dei chiostri, dalle semi-oscurità degli uffici e delle anticamere, dagli scaffali delle biblioteche.” 

Pertanto quando il nostro “Sommo poeta” nel De vulgari eloquentia tesserà le lodi del volgare fiorentino, elevandolo ad espressione lirica del tragico (il genere aulico per antonomasia), lo farà in latino per due precise ragioni: in primis, non senza un pizzico di campanilistico fervore, per nobilitare il nuovo “volgare fiorentino illustre, aulico e curiale” ed elevarlo al rango di strumento letterario d’eccellenza. E poi per il ben meno nobile intento di non svilire se stesso agli occhi dei suoi illustri colleghi letterati, volendo dimostrare loro di possedere anche la vera, autentica lingua nobile dei sapienti, e di sapervisi giostrare con altrettanta maestria. 

Il volgare fiorentino che s’avvia spedito verso l’Italiano patirà sino al Novecento di questa contraddizione che animerà il dibattito sulla cosiddetta “questione della lingua”: da un lato il purismo degli intellettuali letterati che tenderanno a innalzarlo sulla scia prestigiosa di Dante, Petrarca, Boccaccio, e poi Ariosto e Tasso, e poi Marino, e Leopardi; dall’altro lato il lezzo contaminante di villani, mercanti, contadini e pescatori che insozzerà i panni del Manzoni mescolando inevitabilmente la pasta di quel lessico sublime con spagnolismi, francesismi, arabismi, germanismi e anglicismi d’ogni sorta, a seconda delle dominazioni che saranno di volta in volta chiamati a subire. 

E periodicamente i panni intrisi “delle avventure della vita” e di commerci di parole nuove di zecca saranno risciacquati dai letterati e dai sistematori del lessico, i quali sentenzieranno sulle forme da accogliere e ricettare come merce rubata dentro il nuovo italiano “dignus”, e quelle da ricusare e rispedire al volgo con indignata supponenza. 

Si misureranno appunto nell’ardua impresa personalità illustri e finissimi dissertatori come Ficino e Poliziano nel Quattrocento, Bembo e Guicciardini nel Cinquecento, Marino e l’Arcadia nel Seicento, Il Caffè dei Verri nel Settecento, Monti e De Santis nell’Ottocento. 

Per secoli la letteratura italiana galleggia così tra cielo e terra e solamente nel secolo nostro (il Ventesimo) tocca quest’ultima, anzi s’interra.” 

Mi soccorre di nuovo il mio prediletto (Prezzolini) e io a mia volta faccio tesoro della sua sobria saggezza e concludo che il Verismo di Verga e Capuano, sulla scia del Naturalismo francese tardo ottocentesco, avrà il merito ineguagliato di unire finalmente la letteratura con la lingua. Entrano in scena i piedi nudi dei villani lerci di terra e di fango, piazzandosi al centro d’uno sproloquio pittoresco pregno di arcaismi siculi e di derivazioni esterofile; resteranno al centro sotto il faro di scena della letteratura come in un quadro di Michelangelo Merisi sino ai giorni nostri. É tanto forte questo processo d’unificazione poetica che la critica letteraria del Novecento saprà riconoscere nel Vate di Pescara, D’Annunzio, l’ultimo grande, sublime, eccelso “trombone” della letteratura italiana da “pernacchiare”.

I forestierismi d’inizio secolo sono i campanilismi locali, che sfornano sempre più vorticosamente neologismi spesso spassosi, tormentoni che entrano prepotentemente dentro il nostro parlato: un interesse sempre più minuzioso verso il vernacolare, il dialettale, il pittoresco, la storia della provincia, pervadono la letteratura d’inizio Novecento e la collegano alla vita vera. La lingua si dirama e si stende sul territorio e al territorio risponde, servita da autori quali Pirandello, Calvino, Gadda, Buzzati, Guareschi, Vittorini, Silone, Levi, che ne estendono i confini e ne ampliano gli argini, privilegiando lo sdoganamento del gergo dei parlanti al moralismo linguistico degli intellettuali. In seguito l’evoluzione della società da contadina a industriale, la divulgazione di un Italiano moderno e asciutto attraverso la televisione, il Dopoguerra filoamericano e infine l’avvento degli strumenti digitali e la conseguente moltiplicazione esponenziale dei media che cavalcano l’onda alta della globalizzazione, renderanno significativamente più incisivi e massicci gli innesti nel dizionario di parole ed espressioni straniere. 

D’altronde, servendomi d’ un’impostazione un poco gramsciana, se é vero che l’unitarietà di una lingua dipende dai suoi modelli unanimemente riconosciuti come “tipi di riferimento”, il Novecento é un rutilante avvicendarsi di modelli linguistici e mezzi di comunicazione che avanzano di pari passo con il progresso tecnologico, dai giornali ai cinegiornali, dalla televisione ai media di massa che iniziano a proliferare sulla rete.

Soprattutto nel corso dell’ultimo decennio del secolo risulta inequivocabile l’aumento drammatico delle fonti di contaminazione dell’italiano parlato, che incidono sulla massificazione dei suoi registri, e quindi sull’adeguamento della lingua a livelli comunicativi che si prefiggono l‘obbiettivo di raggiungere quanto più audience possibile. É il livellamento verso il basso di una lingua che ha smesso oramai di inseguire la letteratura più illustre, ne ha deposto gli stilemi altisonanti, avendo adottato modelli diversi ed eterogenei d’approvvigionamento. In questa fase la letteratura si mette sulle tracce della lingua, non succede più il contrario.

Quel che é poi radicalmente mutato sono le capacità di penetrazione dei “neologismi”, che quasi istantaneamente e senza incontrare resistenze o possibilità di rielaborazione entrano nel parlato e vi si innestano, andando definitivamente a insediare quel determinato concetto di pertinenza che prima del loro avvento poteva ben essere espresso con una parola italiana. Basti pensare alla parola “lockdown”, per fare un esempio recentissimo… Alzi la mano chi ha provato anche per un istante con l’anticamera del cervello ad usare termini alternativi e certo non meno efficaci dal punto di vista semantico, quali “isolamento”, “chiusura”, ”clausura”, “blocco d’emergenza” o addirittura “protocollo d’emergenza”! Niente da fare, galeotto fu l’articolo del “Corriere della Sera”, l’anglicismo aveva già soppiantato qualsiasi possibilità di definizione alternativa, rendendo ogni tentativo del tutto inadeguato, quasi risibile, e persino i nostri anziani seduti in soggiorno con il plaid sulle ginocchia e gli occhialetti abbassati sul naso ci fissavano attoniti chiedendoci: “ahò, ma quanto durerà ‘sto lockdown?”. 

Poco male, perché a sollevarci dal tedio della clausura sarebbe di lì a poco arrivato, manco a farlo a posta, il “green pass”, in barba alle dietrologie, indovinate un po’, dei “no vax”.

Perché a questo punto é bene ragionare dati alla mano su quale tipo di colonizzazione linguistica stia insediando la nostra lingua. É inevitabile. Fu Hegel a decidere che “quando un fenomeno cresce da un punto di vista quantitativo non si ha solo un aumento in ordine alla quantità, ma si ha anche una variazione qualitativa radicale”. Andiamo allora in primo luogo a stabilire la portanza di questo incremento nelle “importazioni di lessemi dall’estero” della lingua italiana, perché sulla base dell’assioma hegeliano questo ci aiuterà  a valutarne la portata qualitativa. 

Le rilevazioni del dizionario GRADIT di Tullio De Mauro nell’edizione del 1999 ci informano innanzitutto che dei circa 260mila lemmi di cui consta l’Italiano, 13.610 (circa il 5%) sono i forestierismi che derivano dalle cinque lingue più influenti, così ripartiti secondo criteri di provenienza: 

  • 6.292 dall’Inglese
  • 4.982 dal Francese
  • 1.055 dallo Spagnolo
  • 648 dal Tedesco
  • 633 dall’Arabo

Nell’edizione del 2007 il dizionario segnalava che mentre per le ultime tre fonti di derivazione i dati erano rimasti pressoché immutati, proporzionalmente molto significativi erano invece gli incrementi degli anglicismi (+2.100 lemmi) anche rispetto ai francesismi (+ 350 lemmi). 

Ancora più interessante é la ripartizione interna dei lemmi anglofoni, perché questa discriminante segna la variazione qualitativa che é diretta conseguenza di quella quantitativa: degli 8.392 anglicismi ben 5.870 (il 70%) sono quelli che i linguisti definiscono “innesti crudi”, ovvero non mediati da un processo di “italianizzazione”. La tendenza é esattamente invertita rispetto a quella che fino agli anni Sessanta era stata registrata. Gli Italiani, sino ad allora, avevano quasi sempre risposto all’anglicismo come, per capirci, facevano negli anni Venti i nostri emigranti in America, i quali un poco per orgoglio nazionale e un poco per incapacità a masticare l’Inglese americano, trasformavano le parole come potevano per avvicinarle all’Italiano gergale (“Broccolino” per Brooklin, “bistecca” per beefsteak, “azzardo” per hazard, “rivoltella” per revolver, “grattacielo” per skyscreeper). 

Di questi tempi al contrario si osserva l’importazione passiva e indiscriminata dei termini. Sic et simpliciter s’accolgono suoni nuovi solo perché imposti dalla comunicazione globale, senza alcuna previa verifica. Connotativo di tale atteggiamento, fenomeno del tutto estraneo alla lingua italiana sino a qualche decennio fa, il proliferare di “parole – radice” inglesi che a loro volta producono nuovi lemmi presto assimilati dall’Italiano sia parlato che scritto: basti pensare alle parole “baby”, “pet”, “food”, “market” e ai loro innumerevoli derivati (“babysitter”, “babygang”, “petshop”, “petsitter”, “slowfood”, “fingerfood”, “streetfood”, “streetmarket”), persino di derivazione mista (“babypensionato”, “babycriminale”). Capita così che ogni anno, in media, circa la metà delle parole nuove della lingua italiana censite dai dizionari sono lemmi inglesi puri.

L’italianista Valeria Della Valle rileva per di più che fra il 2008 e il 2018 nei vari dizionari nostrani sono apparse quindici nuove parole dalla radice “food”, e due sole da “cibo”, diciassette da “gender” e solo tredici da “genere”, per citare alcuni esempi. 

Siamo quindi di fronte ad una vera e propria “recessione” dell’Italiano al cospetto di un sempre più esteso proliferare di colonie di parole d’origine o derivazione inglese. Dicasi “anglopurismo” la tendenza ad affermare l’autorevolezza e la dignità linguistica di un neologismo anglofono a danno del suo omologo semantico italiano. 

Potrebbe ben definirsi un fenomeno largamente diffuso, ravvisabile anche in altri Paesi dal retroterra culturale fortemente identitario, e dunque una tendenza in qualche modo fisiologica, figlia della etero-partita sovranazionalità dell’Inglese come nuova lingua globale, e questo certamente in parte é vero. Eppure nel nostro caso gli effetti di questa tendenza assumono i connotati di un’invasione incontrollata e senza dubbio proporzioni macroscopicamente più significative rispetto ad altri Paesi europei. 

Molto interessanti sono a questo proposito i risultati di un’ iniziativa condotta dal portale indipendente “italofonia.info“. Si tratta di un’analisi comparativa degli anglicismi crudi presenti in alcuni importanti quotidiani europei di lingue diverse e di simile tiratura e stile. Tra il 6 novembre e il 24 dicembre 2021 sono stati presi in esame La Repubblica (Italia), Le Monde (Francia), El Mundo (Spagna) e Welt (Germania), contando il numero di anglicismi presenti ogni giorno sulla loro prima pagina dell’edizione digitale. A questi è stata affiancata una quinta testata, The Guardian (Regno Unito) per poter registrare la presenza di forestierismi ed, eventualmente, italianismi. Lo studio è stato ripetuto con cadenza bisettimanale.

Il totale cumulativo, durante quattro settimane, e senza contare ripetizioni e anglicismi completamente acquisiti quali barpodcast e sport è il seguente:

La Repubblica = 2528

Welt = 1122
El Mundo = 393
Le Monde = 191
The Guardian = 25 (di cui 7 italianismi)

Il quotidiano “La Repubblica” ne totalizza quasi il doppio di tutti gli altri messi insieme, più del doppio dei colleghi tedeschi di Welt, 6,5 volte in più degli spagnoli di El Mundo, e oltre 13 volte in più di Le Monde in Francia.

Il cosiddetto “anglopurismo” dunque é “cosa nostra”, esclusivamente nostra, perché dipende completamente dalla nostra scarsissima consapevolezza linguistica, dalla nostra ignoranza. 

Torniamo un attimo al modello gramsciano, quantomeno per attingere ad una delle poche teorie linguistiche ispirate alla filosofia della prassi: quali sono i nostri modelli di riferimento, quelli che, unanimemente riconosciuti da una collettività come informatori di registri comunicativi, contribuiscono in modo determinante alla unitarietà della lingua e alla formazione della sua fisionomia? Se é vero che cultura e lingua sono come lo specchio che riflette e la sua immagine riflessa, quali sono le fonti determinanti della nostra cultura che definiscono i tratti della nostra lingua?

Non abbiamo intellettuali, abbiamo tecnici di settore chiusi dentro le proprie discipline specialistiche come monaci in un convento.  I nostri linguisti faticano a formulare indirizzi organici e unitari che possano illuminare le politiche e l’operato delle nostre scuole, e le nostre scuole a loro volta sono prese dalla frenesia di rincorrere i propri alunni sui sentieri poco pratici della tecnocrazia, piuttosto che recuperarli su quelli congeniali dell’educazione. I tecnici da una parte, la vita reale dall’altra, la tecnocrazia nel mezzo. Parla l’Accademia della Crusca, e subito sentiamo in cuore l’angoscia di dover sopportare una nuova concione del tutto scollegata dai ritmi scalcianti della nostra vita reale. E così le questioni della lingua si allontanano da noi.

Non abbiamo giornalisti egregi, cioè non abbiamo intellettuali artisti della penna capaci di uscire dal tracciato, di sconfinare, di fare cultura. Le scelte lessicali di questi nostri opinionisti della carta stampata e del video non producono poetiche riconoscibili, il loro discorso é formalmente mutuato da quello degli economisti e dei politici, ch’é diventato preponderante. É incapace di generare nuove forme. Longanesi, Montanelli, Bocca, Pasolini, Flaiano, Biagi, Terzani, Fallaci, quanto questi nomi abbiano saputo influire sui nostri codici linguistici nel corso del Novecento é ancora materia d’approfondimento. Sono morti, tutti. I vivi che potrebbero non hanno più modo d’incidere, perché gli spazi e i tempi sempre più serrati dei media  non glie lo consentono.

Non abbiamo scrittori, ma neanche lettori. Dati alla mano, quelli che Istat definisce lettori, cioè quelli che, per motivi che non siano scolastici o professionali si sono “accinti” alla lettura di almeno un libro (uno!) nel corso di un anno solare, (non conta se l’abbiano poi finito), costituivano nel 2016 il 40,5% della popolazione. E la tendenza é inesorabilmente in calo. Nel 2010 la stessa percentuale di “lettori Istat” s’attestava al 46,8%. Tre milioni e mezzo di “lettori” in meno in sei anni.

E con riferimento a quanti invece leggono, la vera domanda é: quanti comprendono quello che leggono? 

I sondaggi OCSE sulla comprensione dei testi scritti, quelli che Galimberti ama citare spesso nel corso delle sue conferenze a tema per segnalare l’urgenza del nostro profondo stato di crisi culturale, collocano i nostri studenti dai quindici ai ventuno anni agli ultimi posti in Europa, insieme ad Ungheria e Lituania. Non va per niente meglio con gli adulti la cui capacità di comprensione di un testo scritto é allarmante. Lo stesso criterio di determinazione della comprensione dei testi OCSE, infatti, applicato ad un campione anagrafico più ampio (dai sedici ai sessantacinque anni d’età), rivela che in Italia la percentuale di individui che si ferma al livello 1 di comprensione (il più basso) si attesta al 28%, contro una media OCSE che non supera il 15%.

E questo incide pesantemente sulla determinazione della consapevolezza linguistica media nazionale, ovvero sull’ “abilità di contemplare metacognitivamente un elemento della lingua che già padroneggiamo e a proposito del quale abbiamo quindi sviluppato un insieme coerente di intuizioni”. La definizione del concetto da parte del filosofo e linguista James sembra attagliarsi perfettamente alla prassi invalsa nel nostro Paese, la tendenza all’”anglopurismo”.  

Sulla base di questa definizione infatti, individuo linguisticamente maturo é colui che conosce profondamente le parole che usa, che riflette usandole e le usa riflettendo, che sa rielaborarle.

Un articolo di Wired Italia del 2014 s’interrogava (del tutto inconsapevolmente) su una cogente questione strettamente connessa sia alla consapevolezza linguistica che al suo opposto, cioè l’”anglopurismo” nostrano; il titolo dell’articolo era il seguente: “la parola -omosessuale- é un insulto?”. 

Eh si, perché l’anglicismo “gay”, s’era capito dal principio, ha sempre avuto le carte in regola per scalzare il suo omologo semantico italiano: é più breve, e questo é già un importante attributo che s’allinea bene alle esigenze di una comunicazione “spiccia” dei social, ha un suono dolce, gentile, era (fino a qualche tempo fa) del tutto nuovo, e si sa che il nuovo é erba sempre più verde, é chic, cioè ha i caratteri di quell’eleganza vagamente raffinata che spogliano il termine di qualunque intenzione connotativa “politicamente scorretta”. E poi, soprattutto, é anglofono. 

La parola “omosessuale” in inglese si traduce con “homosexual”. E qui il primo equivoco lo genera quel “homo”, con l’acca muta, che secondo parte dell’opinione comune sarebbe da far risalire alla parola latina “homo – hominis”, cioé “uomo”, “maschio”. Quindi la parola “omosessuale” sarebbe fortemente qualificativa, anzi peggio, connotativa, cioé veicolerebbe intrinsecamente un commento, un giudizio, introducendo una distinzione di genere proprio dentro la definizione del genere. E a questo punto come potrebbero le lesbiche sentirsi rappresentate da una parola tanto maschilista, che le esclude a priori? 

Naturalmente, se questa pista etimologica fosse autentica, allora avrebbe avuto ragione qualche anno fa Checco Zalone a cantare che “gli uominisessuali sono gente tali e quali come noi!”.

Posto che la parola “homo” in latino, contrariamente a quanto si possa ritenere, non si riferisce al “maschio”, ma all’”uomo” in senso lato, all’”essere umano” sia maschio che femmina, la parola “omosessuale” in realtà ha tutt’altra origine e deriva dai lemmi “oimos”, che in greco antico vuol dire “medesimo” e “sesso”, la cui etimologia é soggetta a diverse interpretazioni, una delle quali riporta al verbo latino “secare”, che vuol dire “separare, distinguere”, e sarebbe ovviamente correlata appunto alla distinzione fra “femmina e maschio”. Dunque le lesbiche non si sentano vilipese ne tantomeno estromesse, sono omosessuali tanto quanto i maschi, poiché anche loro, come i maschi omosessuali, prediligono la compagnia d’ esseri umani del medesimo sesso, appunto.

Per cui la parola “omosessuale” non é affatto un insulto. E il signor Jeremy W. Peters, giornalista del New York Times, dovrebbe forse spiegarci meglio il ragionamento che il 14 marzo del 2014 lo portava sulle colonne del suo prestigioso quotidiano ad esprimere la seguente deduzione:

“Consider the following phrases: homosexual community, homosexual activist, homosexual marriage. Substitute the word “gay” in any of those cases, and the terms suddenly become far less loaded, so that the ring of disapproval and judgment evaporates.”

Traduco in Italiano

“Considerate le seguenti frasi: comunità omosessuale, attivista omosessuale, matrimonio omosessuale. Sostituisci la parola “gay” in uno qualsiasi di questi casi e i termini diventano improvvisamente molto meno pesanti, così che l’anello di disapprovazione e giudizio evapora.”

La parola “gay” é nient’altro che un neofrancesismo di derivazione latina prestato all’Inglese. Deriva dalla parola “gaius”, che vuol dire “vivace, gioioso, allegro” nella sua accezione positiva, e “pazzerello, originale” in senso lievemente dispregiativo. 

Basterebbe riflettere sul fatto che il 30% dei lemmi inglesi deriva direttamente dal latino, e che un altro 30% deriva indirettamente da forme latine per comprendere che quando accogliamo parole anglofone, nella maggior parte dei casi, (il 60% circa) in un certo senso, “ce le riprendiamo in casa”, e addirittura in spesso le andiamo a sovrapporre a parole nostrane assolutamente omologhe, sia in termini di origine che in termini strettamente fonetici: per quale motivo sentiamo la necessità ad esempio di utilizzare la parola “market”, anziché “mercato”. Basterebbe questa semplice consapevolezza per in qualche modo “storicizzare” il fenomeno, per comprenderlo meglio.

Tornando alla parola “gay”, a prescindere dall’accezione del significato che vogliamo attribuirgli, (vivace o pazzerello?) questa parola é davvero inequivocabilmente qualificativa, perché deriva da un aggettivo, cioé da un attributo aggiunto al sostantivo, atto a determinarne e descriverne una qualità. In pratica, mentre “omosessuale” é un sostantivo “scientifico”, che indica e definisce un significato, “gay” é un termine che giudica, cioé attribuisce una qualità, aggiungerei in questo caso, una qualità del tutto opinabile. 

Per usare le parole del noto editorialista del New York Times, sarei decisamente portato a concludere che la parola “gay” consolida l’anello di disapprovazione e giudizio molto più del vituperato concetto di “omosessualità”. 

Ma la “damnatio memoriae” delle parole é un processo collettivo, e quindi irrimediabile. Tant’é, ad oggi la comunità italiana degli omosessuali si sente ben rappresentata dalla definizione anglicista, al punto che già nel 2006 ha ufficialmente ricusato l’altra, includendola nel glossario ufficiale delle parole più o meno vagamente omofobe. Di lì in poi, il conformismo e, appunto, l’inconsapevolezza linguistica hanno fatto il resto. Provate a cercare su Google in lingua italiana le due parole: 5 milioni di risultati per “omosessuale”, 3 miliardi e duecentocinquanta milioni per “gay”.

In conclusione, tornando alle dolenti note del nostro “piano scuola”, credo ci sia poco da stupirsi del fatto che un documento ufficiale del Governo, un documento istituzionale, esprima un livello di adesione tanto fideistica all’”anglipurismo”, al punto di non riuscire proprio a trovare un sinonimo nostrano alla parola “background”. C’é da inorridire, questo si, e bene fa la Crusca ad esprimere il suo sdegno, ma non c’é niente di cui stupirsi. 

La lingua é un fatto mutevole e dipende dai modelli di riferimento dei propri parlanti. Attenzione, non dipende quindi direttamente dai propri parlanti, ma dai modelli che incidono su gran parte di loro. 

I nostri governanti hanno smesso da decenni d’essere modelli incidenti, anche loro hanno preso posto in mezzo agli “asseverati”. 

La politica viaggia tutta dentro quei media di massa che non conoscono, non pensano, non elaborano, non costruiscono. E la conoscenza, come abbiamo detto, é apparentemente l’ultimo baluardo della consapevolezza linguistica…

Potremmo prendere in prestito forse lo slogan di uno degli spot televisivi trasmessi a partire dal 1988, più o meno il tempo in cui Nanni Moretti inveiva contro l’anglopurismo emergente, quella pubblicità che era nata per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla prevenzione dell’HIV, perché anche in questo caso abbiamo a che fare con un virus dilagante e potenzialmente letale. 

L’anglicismo, se lo conosci, lo eviti. Se lo conosci, non uccide la tua lingua.