Davvero legare l’origine del lemma al concetto di morte (anzi per la precisione al suo contrario), dando credito alla via latina che porterebbe ad “a-mors”, cioè appunto all’anti-morte é operazione filologica affascinante e ambiziosa.
Tuttavia pare più accreditata dai linguisti l’origine dal sanscrito “Kama”, che vuol dire più prosasticamente “desiderio, passione”, in senso più esteso “benessere, felicità”.
Invero la radice indoeuropea dischiude uno scrigno di derivazioni direttamente collegate al concetto di “amore” che sembra oltremodo avvalorare l’ipotesi: a iniziare dal kāma Sūtra, il preclaro (e oramai anche abbastanza inflazionato) atlante della concupiscenza ereditato dal classicismo induista.
Kama-deva é invece l’imbelle divinità induista dell’amore; proprio come Eros e Cupido (non a caso, direi), col suo arco in resta scocca cinque frecce che hanno il nome di altrettanti fiori, ognuno dei quali a rappresentare ciascuno dei sensi; per così dire “un viatico sinestetico all’amore totalizzante”.

Il tanto vituperato (da noi occidentali) concetto di “karma” mutuato dalla filosofia indiana certamente muove dalla stessa radice e letteralmente significa “unire, mettere insieme l’azione e l’intenzione”; in senso più olistico e filosofico circoscrive “lo spazio d’interazione energetica dell’essere umano con il cosmo e con gli altri esseri umani”, sbrigativamente tradotto, il concetto qui da noi – che amiamo semplificare – , come “destino umano”, idea direi antitetica rispetto alle latitudini del pensiero dalle quali il lemma proviene.
Poi la consonante gutturale (k-) della radice “Karma” probabilmente cadde quando a seguito di chissà quale ancestrale transumanza che arruginì presto in insediamento, in Grecia, gl’Indoeuropei che quivi si stabilirono iniziarono a utilizzare il verbo “Harmózō”, (ἁρμόζω), che significa comunque sempre “mettere insieme, connettere”; di qui in poi l’“harmonía” greca che scivola sic et simpliciter nell’”harmonîa” latina, la quale non credo abbia bisogno di traduzione.
Ed eccoci infine all’”amor” latino, che non é certo cristiano, meglio precisare:
“Amerai il prossimo tuo come te stesso”, dice il Nazareno. Lo dice in aramaico, ma i suoi discepoli lo traducono subito in Greco (la lingua dei Vangeli – da “euangélion”, appunto, “annuncio, buona novella”), utilizzando il verbo “Àgapao” (ἀγαπάω), non il verbo “mao” (μο)…
“Ἀγαπάς τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν” (Agapas ton plēsiōn sou os seautón)
E questo perché la lingua filosofica per eccellenza era in grado di rappresentare con chirurgica precisione ogni sfumatura del sentimento umano, e aveva ben distinto l’amore sensuale “mao” da quello spirituale “Àgapao”.
Identica separazione propone il latino:
“Diliges proximum tuum sicut te ipsum”
Il verbo “diligo”, che implica l’accezione della “predilezione”, quindi in ultima analisi dell’anteporre l’altro a se stesso, viene preferito ad “amo”, che assumeva spesso ben altre nouances; si pensi a quell’aristocratico che sprona il nocchiero a prender presto la via di Pompei, dacché ha urgenza d’amare… La scenetta spassosa é scolpita per sempre in un graffito su un muro di Via Veneria:
“Iamus, prende lora et excute Pompeios defert, ubi dulcis est amor.”
Andiamo, afferra le briglie e scuotile, portami a Pompei, dov’é il dolce amore”.
E d’altronde, non é più o meno quello che intendiamo noi oggi con la locuzione “fare l’amore”?
A conti fatti la distinzione originaria nel Greco degli Evangelisti direi fu provvidenziale: chissà come sarebbe andata a finire altrimenti…