É necessario, per comprendere a fondo il senso taumaturgico ed ancestrale del lemma, inabissarsi in quel catino di formicolante brulicame di boscaioli (i “Ramnes”, i “Tizi” e i “Luperci”) che si adagiava già nell’ottavo secolo prima di Cristo laddove il corso del Tevere, ad una trentina di chilometri verso nord dalla sua foce, viene incoronato da quegli “umili monticoli”, così li aveva apostrofati Teodoro Mommsen, che agevolarono la nascita dell’Urbe.
In pratica, il lemma “Pontifex” é antico e complesso quanto Roma.

Se inoltre, come sembra oramai pacifico, é vero che l’accorpamento dei tre semi della genia romana si sia celebrato proprio sul più strategico di quei colli, il Palatino, in un ambiente per la verità tanto insalubre e paludoso da non consentire presidi agricoli significativi, sembra già in effetti congenita nella esigenza quasi immediata del collegamento con l’altra sponda del fiume l’origine “edile” del lemma. Non deve stupire quindi che il mero “facitore di ponti” assurga presto a colui che apre la via verso la strada commerciale del Lazio, colui che consenta d’imbrigliare sotto un’unica potestà le due sponde, colui che mostri la via dell’espansione territoriale oltre la barriera naturale contro le scorribande dei nemici italici.
Era infatti quasi esoterica la familiarità con quella “formula aurea” a metà fra aritmetica e ingegneria che sottendeva la ricetta per la confezione d’un arco sospeso fra due rive opposte, arte nella quale, si ha prova di questo in tanta archeologia toscana, gli Etruschi eccellevano ancor prima che i Romani.
Dunque il “magister” edile, il mastro costruttore che possiede il crisma del calcolo e della misura, il collettore dell’arte del “facere” ed anche, si rammenti sempre, di quella del “dis-facere”. In caso di attacco da parte di popolazioni italiche, si ricorreva al depositario dell’arte pontificia per smantellare le centine lignee dei ponti e scollegare le rive del fiume. Ragion per cui il più antico ponte di Roma, il Sublicio, (621 a.c.) che collegava il Palatino all’Isola Tiberina, deve il suo nome all’antica parola volsca “sublicae”, ovvero “travi di legno”, appunto.
Ecco allora che la chiave dell’espansione commerciale e della protezione, il passaggio verso l’apertura al mondo e anche verso il ritorno al proprio mondo, in ultima analisi l’innesco dell’attacco militare e della ritirata, tutto questo dev’essere custodito da un collegio di savi, depositari della conoscenza giuridica, sacra, persino esoterica, eletti nell’alveo dell’élite aristocratica, depositari e censori dell’arte divinatoria. I “pontifices”, ovvero i sacerdoti in grado di collegare gli opposti, di conciliare ed imbrigliare gli estremi, di mettere in comunicazione i mondi.
Di qui in poi, siamo già nella Roma dei Reges, sarà un continuum che traverserà la storia millenaria di Roma, calzando in corsa il guanto del Cristianesimo, riuscendone il concetto addirittura rafforzato, sino a noi.
A tal proposito é bene ricordare che non s’inabissa affatto la carica del “Pontifex Maximus” neanche durante l’età imperiale, dal momento che gl’imperatori assumevano il titolo di capi supremi del collegio. Di qui si snoda il lungo corso del cesaropapismo papale.
In definitiva, la storia del lemma “pontefice” collega davvero miracolosamente quel poderoso pragmatismo romano che ben si conosce al più alto simbolismo dell’arte divinatoria che ci sarà sempre ignoto.
D’altronde se il termine “sacro”, diretta discendenza della radice sak-, che in latino arcaico sta per “dividere”, vuol dire letteralmente “il separato”, che il “facitore di ponti” ricolleghi le cose della terra con quelle del cielo. E all’occorrenza, sia anche in grado il “facitore”, rapidamente, di smontare il ponte. Nascondere e rivelare.