
M’é capitato di leggere un articolo sul “Fatto quotidiano” nel quale l’editorialista (una donna, non ricordo il nome), per smontare il Tycoon vestito da Presidente s’affannava a scomodare il preclaro saggetto di Umberto Eco “fenomenologia di Mike Bongiorno”, che scatenò a suo tempo le ire dell’imbelle conduttore… Fatica sprecata.
Ritengo che il povero Mike fosse soggetto ben più ostico di Trump, almeno dal punto di vista semiologico. Invero c’é molto meno da “scoprire”, da “concludere”, in ultima analisi da “approfondire” in Trump. Il nostro compianto Eco non si sarebbe sprecato.
Un deserto di contenuti il suo frasario, semmai dovessimo partire da questo: la vacuità dei concetti (l’uomo non é animato dal benché minimo sprazzo d’idealismo, e si vede; eh vabbé, questa deficienza, di questi tempi, non fa stracciare le vesti a nessuno), dicevo la sua vacuità é schermata dal ricorso quasi nevrotico all’iperbole e all’interiezione. Non c’é una sola sua dichiarazione, (credo da sempre!) che, dovendo essere trascritta, non terminerebbe senza un punto esclamativo. E poi la messe di superlativi! Cos’é un superlativo, se non un’oltranza dell’aggettivo? È un aggettivo “super – latum”, appunto, portato oltre, ecceduto, dacché se la qualificazione “bello” proprio non dovesse bastare, la si può superlare con “bellissimo” o ancora “stupendo”, poi basta. Lui però é capace di spingersi ben oltre l’oltre comune: superla solo “auto – referendo”, riservando cioé il non plus ultra dell’aggettivazione a se stesso, alle sue gesta (naturalmente sempre auto-recensite) oppure al cerchio magico dei suoi accoliti genuflessi. “Awesome, fantastic, outrageously beautiful”, li getta come petali di rosa, li asperge come riti di benedizione giù dal pulpito dell’auto-stefanía (come Napoleone, ei s’incorona da solo).
E via dicendo… Si potrebbe proseguire con il linguaggio del corpo, con quella prosopopea affettata, con quella sardonia rampicante che sta in bilico fra il “sono uno di voi” e “io so’ io, e voi…”
Ma a che pro?
Sarebbe fin troppo facile continuare ad esporre gli eccessi e le ostentazioni, l’operazione non richiederebbe nessuna abilità di svelamento, proprio perché questa fenomenologia é “scoperta”, appunto.
Bisogna -ahimè- cedere il passo alla nuova etica dello spettacolo applicata alla comunicazione di massa: più osceno, spudorato, pertinace e impudente il personaggio, più ampio e unanime il consenso mediatico che gli sarà accordato. Da qui la dirompente escalation di Trump, da qui la sua forza. Proprio su questa base egli ha costruito il suo consenso… Stavo per dire “abilmente”, ma quale abilità richiederà mai ostentare impudentemente il proprio repertorio di bassezze, quale finezza retorica o speculativa sarà chiamata ad operare laddove non si pone alcuna necessità di selezione, alcun filtro?
E allora di cosa si sostanzia Trump? Come lo si affronta?
A mio modesto parere, in pieno ossequio a quel principio di causalità che ordisce da sempre l’intelaiatura degli umani destini in ogni loro declinazione, lo si fa in prima istanza stabilendo le cause prime dell’effetto Trump; occorre staccargli per un istante l’occhio di bue dalla faccia e puntarlo sulla sua platea, la sua comunità, la sua polis. Non può darsi politica senza una polis. É talmente scontato il concetto che, come spesso accade, bisogna gridarlo.
La forma ce la mette lui, ma la sostanza siamo noi, e questo “noi” abbraccia inevitabilmente quell’ampia messe di eterogenea umanità che convenzionalmente si suole chiamare “Occidente”, un sistema complesso il cui tramonto culturale prima che economico, come dicono da oltre un secolo i nostri filosofi, é già iscritto nel suo nome. In questo senso dico che siamo tutti americani, e che Trump rappresenta davvero la cuspide del nostro languore.
Siamo noi infatti a chiedere alla politica di calarsi dall’alto per sollevarci dalle angustie della partecipazione. Sono prima di tutto nostre la profonda ignoranza e la vacuità di contenuti, l’inadeguatezza dei nostri rappresentanti, i quali semplicemente si limitano a restituirci quello che noi chiediamo loro.
Se così non fosse, la politica non sarebbe ridotta ad assoluto populismo, oramai ad ogni latitudine e senza eccezioni.
La semplificazione é già il nostro nuovo metodo ermeneutico, la forma dominante, il pensiero unico che rifugge dalle complessità del pensiero. Non é più, come in passato, il tratto distintivo di quell’etica reazionaria che costituiva l’ossatura delle destre. L’abbiamo oramai assorbita e introiettata tutti. L’abbiamo assunta in piccole dosi quotidiane come il veleno di Rasputin che gli foderava lo stomaco e lo rendeva immune.
In fin dei conti, quale altra ermeneutica ammetterebbe oggi ancora l’attualità storica e la validità del “muro” (metaforico o fisico che sia) come panacea d’ogni angustia sociale, dall’immigrazione clandestina al cosiddetto fantomatico “deficit commerciale” fra Stati?
Risposte troppo semplici a domande molto complesse.